2013
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Una Pac per taglie forti

La Politica agricola comune ha predisposto un quadro di sussidi che premia soprattutto le aziende di grandi dimensioni e l’adozione di misure “Green”. Siamo sicuri sia la strada giusta?

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Pac, l'agricoltura che verrà

Circa la Pac - Politica agricola comune, il 29 novembre scorso è stato votato il documento d’indirizzo europeo fino al 2020. I prossimi sette anni saranno quindi impostati su questi nuovi paradigmi politici ed economici.

Storicamente, si è partiti dagli obiettivi di creare un mercato unico (1988-1992), poi un’unione monetaria fra Stati membri (1993-1999), quindi ci si è focalizzati sull’allargamento a Est dell’Europa (2007-2013). Ora siamo all’Europa del cosiddetto “20-20” e nei prossimi sette anni ci si è posti priorità che sono riassumibili principalmente in una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, ovvero che incrementi l’occupazione. Per raggiungere questi scopi s’intende investire su conoscenza e innovazione, elevando l’efficienza della gestione delle risorse in modo che l’agricoltura possa essere al contempo più verde e più competitiva. Detta così pare la quadratura del cerchio, ma alcune variabili economiche del Mondo reale sembrano scuotere la testa molto dubbiose. Vediamo quindi nel dettaglio come l’Europa si muoverà negli anni futuri.
Innanzitutto si mira a ridurre del 20% le emissioni di gas serra, puntando sull’incremento del 20% di fonti rinnovabili e dell’efficienza nell’uso dell’energia. Si vuole parimenti innalzare al 75% la percentuale di occupazione fra le persone fra i 20 e i 64 anni (ora siamo al 69%). In tal modo si potrebbe anche ridurre di 20 milioni il numero di persone a rischio povertà, le quali oggi si attestano sugli  80 milioni in Europa. Ma non solo il lavoro è al centro degli obiettivi: anche il livello d’istruzione dovrà salire, riducendo del 10% gli abbandoni scolastici e innalzando del 40% il numero dei laureati. Che poi questi laureati in più possano trovare in futuro un lavoro funzionale ai propri studi, si sa, è tutto un altro paio di maniche, specialmente in un Paese come L’Italia dove il nanismo aziendale crea posti di lavoro per lo più generici e talvolta avere una laurea pare quasi un handycap.  
Per fare tutto ciò serviranno però investimenti. E tanti. Infatti il 3% del Pil futuro dovrà essere investito in innovazione. Altra nota dolente per l’Italia, la quale mostra attualmente percentuali “omeopatiche” in tal senso.
 
Le sfide future saranno quindi economiche, ambientali e territoriali. Le prime punteranno all’incremento della sicurezza alimentare, ma anche alla riduzione della volatilità dei prezzi, foriera spesso di crisi economiche. Il sostegno dei redditi e della competitività intende peraltro fornire adeguata compensazione, per esempio, al maggior benessere animale negli allevamenti e alla garanzia di alti standard di sostenibilità offerte dalle aziende agricole. A livello verticale si mira invece a ridurre gli squilibri fra poteri di mercato e attori delle filiere (come convincere le Gdo a pagare di più gli agricoltori però non è dato sapere, nda), come pure a promuovere canali di distribuzione “alternativi” agli attuali, favorendo in tal modo la sopravvivenza delle aziende piccole e mantenendo la diversificazione strutturale delle diverse agricolture attualmente presenti in Europa.

E qui, come soluzione ai problemi degli agricoltori nostrani, già s’intravede forse la discutibile sagoma delle bancarelle zeppe di prodotti a KmZero e i gruppi di acquisto che si recano a fare compere nelle aziende agricole. Ma forse questo è solo un sospetto immotivato e un po’ ingeneroso nei confronti dei Normatori. Almeno, si spera lo sia, perché altrimenti qualcuno dovrebbe rivedere il giudizio sui propri livelli di competenza in materia di economia agraria e di dinamiche della distribuzione di cibo, specialmente se lo si pretende sicuro e perfettamente tracciato.
Fra le sfide ambientali spiccano invece la riduzione dei gas serra, la lotta al degrado dei terreni, l’innalzamento della qualità dell’aria e dell’acqua e della biodiversità. Il 30% del budget dei pagamenti diretti della Pac sarà destinato infatti al Premio Ecologico, in base al rispetto di alcuni impegni che l’agricoltore si assume in materia ambientale.
 
Le intenzioni paiono quindi ottime, almeno in teoria. Peccato che poi al momento di riscuotere la musica cambi: all’Italia saranno allocati pagamenti diretti pari a 26,67 miliardi di euro in sette anni, cioè meno di quattro miliardi all’anno. Ciò significa un secco -18,4% delle risorse rispetto al passato. In altre parole, gli agricoltori italiani dovranno fare di più per avere di meno. Una morale che cozza con le intenzioni di sviluppo dei redditi e della stabilità economica dei produttori su esposta.
Circa il “Greening” si è poi optato per un “ammorbidimento” rispetto alle precedenti proposte ed esso si configura oggi come una “super- condizionalità”. Fra la prima proposta e l’ultima il sistema economico ha recuperato infatti circa 90 milioni di euro. Un conto è infatti chiedere a imprese di 3-10 ettari di assumersi una certa mole di impegni, un conto è chiedere i medesimi sforzi ad aziende di grandi dimensioni. Su tutti gli ettari ammissibili per questi contributi gli agricoltori dovranno infatti adottare pratiche atte alla diversificazione colturale, mantenendo prati permanenti e aree a valenza ambientale. Tutti gli agricoltori potranno accedere a questi sussidi, previa dimostrazione di merito, mentre gli agricoltori Bio avranno diritto automaticamente al pagamento ecologico sulle superfici a produzione biologica. Magra consolazione per un comparto che fino a ieri godeva in via esclusiva di questi contributi. Se ne faranno una ragione.
Circa l’obbligo alla diversificazione, questa interessa solo le aziende a seminativo: fino a 10 ettari non vi è alcun impegno. Dai 10 ai 30 si devono coltivare almeno due colture (la principale non deve superare il 75% del totale), oltre i 30 ettari si devono coltivare almeno tre colture e i prati permanenti non dovranno scendere sotto il 5% della superficie aziendale. Nota utile alle Province di Novara, Vercelli e Pavia: non vi sarà questo tipo di obbligo per le colture sommerse come il riso.
Vi saranno poi da considerare le cosiddette “Aree a valenza ecologica". La nuova norma non si applicherà ovviamente alle colture permanenti e ai prati-pascoli, altrettanto permanenti, e prevedrà che le aree a valenza ambientale debbano essere almeno il 5% della superficie aziendale con un possibile aumento futuro fino al 7%. In queste aree ricadono i terreni lasciati a riposo, le fasce tampone, gli ettari agroforestali, le aree di rispetto lungo le foreste, le foreste a rotazione rapida, le superfici con colture intercalari o di sovescio e le superfici con essenze azotofissatrici. Alcune di queste voci verranno ovviamente ponderate: se per esempio un’azienda ha maggese per più del 75% della superficie non serve abbia anche aree a valenza ecologica.
Chiarimento doveroso sul concetto di “Equivalenza”: se un’azienda adotta già oggi pratiche agroambientali previste dai Psr, questa rientra d’ufficio nel “Greening”, però si dovranno evitare i doppi finanziamenti. Anche se l’azienda ha certificazioni ambientali “greening equivalenti” sarà ammessa d’amblè, pur evitando in ogni caso di pagare due volte lo stesso impegno. Detta in altre parole, per chi già segue questo tipo di percorso ambientale non ci saranno vantaggi suppletivi bensì solo un modo differente di conferirgli sussidi.
 
Un’osservazione finale credo quindi sia doverosa: ascoltando la relazione sulle novità della Pac, in estrema sintesi, parrebbe proprio che la Politica comune europea premierà chi i propri terreni non li tratterà, non li concimerà, non li arerà, perfino chi non li letamerà. Ovvero: come considerare l’abbandono dei terreni coltivabili una pratica “verde”. Alla faccia della sicurezza alimentare tanto sbandierata, perché a fronte del calo costante delle produzioni agricole italiane, foriero di crescenti importazioni dall’estero, lascia basiti l’affermazione di voler sostenere l’agricoltura incentivandola però a produrre sempre meno, distogliendo cioè sempre più terreni alla coltivazione di cibo.
Forse che l’obiettivo ultimo sia quello di far divenire l’Italia un Paese di trasformatori di materie prime estere? Forse. In tal caso avremmo risolto tutti i nostri problemi: basterà incentivare il “Land Grabbing” nei Paesi emergenti e diventeremo tutti più Green e sostenibili in casa nostra. Perché mai infatti inquinare “qui” per produrre i nostri pasti, quando basta inquinare “là”, restando comunque a pancia piena? Una logica in tutto ciò parrebbe esserci, ma non credo sia molto condivisibile su scala globale. Sarà sempre troppo tardi quando si capirà che ogni metro quadro disponibile alla produzione di cibo dev’essere adibito a questo scopo. Scegliendo mezzi di difesa meno problematici, utilizzando le giuste dosi di fertilizzanti, applicando il tutto con i macchinari più evoluti e solo quando serve. Ma benedetti Normatori, guardiamoci negli occhi: la terra dev'essere lavorata e deve produrre tutto ciò che può, altrimenti nel giro di vent’anni ogni buon proposito sulla sicurezza alimentare europea e sul reddito agricolo si rivelerà per ciò che in realtà già oggi appare: aria fritta tinta di verde.

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