2020
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Virus della bietola da zucchero: la rizomania

In tempi di Covid-19, i virus tornano al centro dell'attenzione pubblica, mentre in agricoltura sono purtroppo una presenza costante. La parola agli esperti

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Barbabietola da zucchero: coltura da reddito con una storia travagliata (Foto di archivio)

Fonte immagine: © emjay smith - Adobe Stock

Hanno causato danni ingenti a una molteplicità di colture, dalla papaya al pomodoro, dagli agrumi alla barbabietola da zucchero. Sono i virus e AgroNotizie ha deciso di approfondire il tema sviluppando alcune specifiche interviste.

Oggi è il turno di Alberto Guidorzi, esperto di settore, per approfondire gli aspetti delle virosi della barbabietola da zucchero. In questa prima puntata si ripercorrerà la storia della rizomania, mentre nella prossima si tratteggeranno le origini e le caratteristiche del giallume virotico.

Malerbe che richiedono diserbi anche molto complessi. Diversi insetti parassiti e malattie come la cercospora. Ma anche i virus sulla barbabietola da zucchero hanno giocato e giocano un ruolo importante.
"Il Veneto fu il comprensorio agricolo che per primo introdusse stabilmente e durevolmente la bietola nelle rotazioni agrarie, anche se l'industria saccarifera italiana ebbe inizio sugli altipiani dell'Italia centrale. Negli anni '50 si iniziarono a riscontrare contenuti di zucchero inferiori alla norma e cominciarono ad apparire superfici che presentavano polarizzazioni disastrose. Solo nel 1966 Antonio Canova dimostrò la causa virale della 'Rizomania', così chiamata perché nelle forme più gravi presentava una peluria scura anomala nella parte apicale della radice e lungo i solchi saccariferi e perdita di volume e peso della radice".

Quello che in inglese si chiama Beet necrotic yellow vein vurus, in acronimo Bnyvv, veicolato da Polymyxa betae, un fungo unicellulare. L'italiano Ottavio Munerati già nel 1915 le aveva dato il nome, ma non era riuscito a scoprire la causa. La bietola da zucchero patisce però di altri patogeni fungini oltre alla Polymyxa. Patogeni che però aprirono la via a evoluzioni inaspettate anche per i virus…
"In Veneto all'epoca imperversava infatti anche la cercospora, una malattia fungina endemica in pianura padana che provocava la defogliazione precoce e quindi concorreva ad una minor fotosintesi con diminuito accumulo di zucchero nella radice. Con l'intensificazione colturale dovuta anche all'impulso dato alla bietola dalla nuova Pac, la malattia si propagò e le superfici invase dalla nuova malattia aumentarono esponenzialmente, tanto che la struttura bieticolo-saccarifera veneta fu man mano rivoluzionata, in quanto per i bieticoltori risultavano del tutto insufficienti dei contenuti di zucchero di solo il 9/10%, sufficiente appena per arrivare a non più di 5-6 gradi polarimetrici, quando invece la normalità era di 15-16% e più. Ciò impediva ai produttori di ottenere ricavi congrui rispetto ai costi di produzione e nello stesso tempo rendeva la trasformazione industriale antieconomica, per via del poco zucchero ricavabile e, soprattutto, di più difficile estrazione. Ricordo che al tempo non era infrequente trovare campioni di radici di bietola che addirittura galleggiassero se immersi nell'acqua e ciò per insufficiente densità per il poco zucchero contenuto".

Vedremo poi che lo studio di tale patologia influì anche sulle virosi. Ma tornando sulla rizomania, l'espansione della patologia per quanto rimase confinata in Veneto?
"In un primo tempo le coltivazioni a Sud del Po sembravano essere in parte risparmiate, ma dopo un ulteriore decennio anche in questi comprensori si evidenziò la malattia. Dato poi che l'Italia dipendeva per l'approvvigionamento di seme quasi totalmente dall'estero, il problema fu visto come unicamente italiano e i produttori di seme ben si guardarono da studiarne i rimedi. Ecco un tipico esempio, per nulla ancora capito, che in agricoltura esistono campi in cui il grado di strategicità non può essere ignorato e uno di questi è proprio la creazione varietale. Quando però nel corso di circa vent'anni la rizomania cominciò a risalire verso il Nord Europa, il problema della gravità della malattia e delle gravi implicazioni economiche non fu più solo italiano, bensì divenne europeo. Iniziò così una corsa a studiare più in profondità il problema per trovarne i rimedi, anche perché si era visto che in Italia i comprensori dove la malattia si era espansa la coltivazione bieticola era scomparsa e gli zuccherifici qui esistenti avevano chiuso i battenti".

E qui rientrano dalla finestra gli studi sui funghi.
"Grazie ad Antonio Canova, docente all'università di Padova, si era scoperto che il virus aveva come vettore un fungo del terreno, la Polymixa betae, parassita obbligato delle chenopodiacee coltivate e spontanee che oltre a trasmettere il virus Bnyvv rimaneva a lungo nel terreno nella sua forma di conservazione cistosporica, anche fino a dieci anni. Inoltre le cistospore divenivano anche luogo di conservazione del virus".

E i rimedi tentati quali furono?
"Visto che combattere direttamente il virus era allora impossibile nel Regno vegetale, in quanto le piante non sono vaccinabili come uomini e animali mancando in esse un sistema immunitario, si pensò di combattere il fungo vettore con sostanze chimiche, ma con risultati pressoché nulli. Si provarono anche antagonisti microbici come il Trichoderma harzianum che però si rivelò inadatto, vuoi per i costi, vuoi per il fatto che viveva nel primo strato del terreno, al massimo nei primi trenta centimetri, mentre la bietola da zucchero affonda le radici molto più in basso. Vi è poi da dire che in quel periodo di brancolamento nel buio si diffuse la notizia che il virus potesse essere diffuso attraverso il seme e quindi la possibilità spaventò la Romagna, zona molto vocata alla moltiplicazione del seme di bietola a livello europeo, le cui coltivazioni, tra l'altro, apportavano alle aziende che la praticavano un reddito non indifferente. Per fortuna si dimostrò che il timore non era fondato. Non rimaneva quindi che la strada della ricerca di resistenze e/o tolleranze genetiche alla malattia e la relativa selezione ed inclusione in contesti genetici di buon valore agronomico".

La ricerca passò quindi dai campi ai laboratori…
"Lo screening si fece in vitro mediante test Elisa. Fu una ricerca spasmodica in quanto la malattia ormai imperversava al di qua ed al di là dell'Atlantico. Finalmente negli anni '80 si individuarono cinque fonti di resistenza e/o tolleranza: tre ad elevata resistenza e due tipi a buona tolleranza. A vero dire il lavoro di screening era iniziato un po' inconsciamente molto tempo prima. Infatti, le ditte sementiere più importanti, di fronte ad un mercato importante, quello veneto, ma caratterizzato da basse polarizzazioni, provavano preliminarmente il loro materiale genetico di base nelle zone a più bassa polarizzazione al fine di selezionare solo il materiale che più poteva eccellere su questo mercato. Insomma la selezione massale per lavorare su un materiale più ricco in zucchero era iniziato da tempo. Tale lavoro lo aveva iniziato un grande nostro genetista, il già citato Ottavio Munerati, che dal 1912, anno di istituzione della Regia stazione sperimentale di bieticoltura con sede in Rovigo, aveva anche studiato Beta maritima, in quanto progenitrice della bietola coltivata".

Un ricercatore che non pare sia stato però adeguatamente valorizzato in Italia.
"La levatura di scienziato del Professor Munerati, infatti, è purtroppo riconosciuta più all'estero che in Italia, tanto è vero che dopo la guerra gli Stati Uniti costruirono a proprie spese una sede più congrua della stazione e la donarono all'Italia in ricordo proprio dell'opera scientifica di Munerati. Purtroppo alla sua morte, nel 1949, essendo "reo" di essere vissuto il periodo fascista come d'altronde Nazareno Strampelli, molto del materiale genetico da lui messo a punto venne diviso fra i tre gruppi saccariferi italiani più importanti del tempo e uno di questi era il gruppo Montesi. Questo operava principalmente in Veneto e si accaparrò del materiale più adatto ai suoi comprensori di rifornimento di materia prima e guarda caso fu in questo materiale che si trovò una certa tolleranza alla rizomania, conosciuta come resistenza tipo Alba. Questa aveva però basi molto complesse, derivando da resistenze a carattere additivo, cioè con più geni cumulati, quindi poco sfruttabili per il trasferimento ad altri materiali. Ciò perché i vari geni erano trasferibili solo singolarmente".

Anche il passaggio da plurigerme a monogerme ebbe la sua buona influenza sul tema resistenze/tolleranze.
"In contemporanea alla rizomania, a complicare la situazione vi fu infatti il passaggio dal seme plurigerme, che esigeva un diradamento manuale dei seminati, al materiale monogerme, quello che avrebbe permesso la semina sul posto senza diradamento. Guarda caso il carattere della monogermia venne trovato nel materiale di Munerati che ne aveva notata la presenza, conservando e distribuendo il materiale in occasione di scambi con stazioni sperimentali estere. Comunque questa fu una vera e propria rivoluzione che comportò una deriva genetica enorme, nel senso che si doveva dare assolutamente la priorità al carattere monogerme senza per il momento preoccuparsi di portarsi dietro le altre caratteristiche agronomiche e industriali già accumulate nel tempo. Insomma lo scenario era questo: la bietola se non fosse stata meccanizzata e sgravata di tutta la manodopera che esigeva sarebbe comunque scomparsa come pianta coltivata, indipendentemente dal fatto che fosse o meno resistente alla rizomania. In altre parole le resistenze e/o tolleranze alla rizomania trovate sul seme plurigerme dovettero prima essere trascurate e poi riprese per accumularle nel nuovo seme monogerme, unitamente a tutte le altre che prima facevano della bietola una pianta ancora coltivabile. Da notare che erano già trascorsi circa 25/30 anni da quando si era individuata la malattia virale e la bieticoltura italiana era semplicemente sopravvissuta, tra l'altro precariamente, ma era molto poco progredita".

Di risultati concreti contro la rizomania quando iniziarono ad arrivarne?
"Fu nel 1983 che fu commercializzata la prima varietà con resistenza alla rizomania, tra l'altro con resistenza monogenica e dominante, guarda 'caso' trovata nel materiale della stazione di Rovigo. Inizialmente fu denominata 'diplomono' e successivamente 'Rizor'. La varietà fu poi sperimentata in tutto il mondo con ottimi risultati e dobbiamo dire che il merito della costituzione di questa varietà va all'italiano Marco De Biaggi. Tuttavia, come sempre, con il miglioramento classico tramite l'incrocio non tutte le ciambelle escono con il buco, in quanto occorre mediare, ovvero tenere presente il perseguimento degli obiettivi principali e accettare un compromesso per gli altri. Infatti la varietà Rizor era scarsamente resistente alla cercospora, la quale si doveva combattere con trattamenti chimici anche numerosi con prodotti stannici. Tra l'altro, produceva sì grosse radici, ma la qualità tecnologica era medio-bassa e soprattutto non era ben resistente alla prefioritura, caratteristica però meno importante nei climi mediterranei, con primavere più calde rispetto agli areali nordici ove invece i ritorni di freddo erano più frequenti. Anche altre resistenze e/o tolleranze furono utilizzate in seguito, di cui una proveniente dalla Holly Sugar americana, ma dato che il gene di resistenza Rz che la caratterizzava era pochissimo presente nel materiale americano si è propensi a credere che anch'esso provenga da Beta maritima e quindi ancora una volta da materiale di Rovigo. Tuttavia anche questa ebbe bisogno di una decina d'anni di messa a punto perché conferiva anche altre caratteristiche genetiche negative, come per esempio la scarsa produzione di seme".

Del resto, la barbabietola da zucchero ha una storia relativamente recente negli scenari agricoli mondiali.
"La barbabietola coltivata per estrarne zucchero appartiene al genere Beta ed è una creazione recente, visto che fu circa 250 anni fa che se ne iniziò la selezione. Precedentemente era stata massalmente selezionata dall'uomo per l'alimentazione animale, usando radici e foglie, oppure umana, utilizzando solo le foglie. Questa selezione fu fatta sulla bietola selvatica della specie maritima, ma il genere Beta comprende anche altre sezioni (Corollinae e Procumbens) nelle quali si trovano geni che ostacolano la penetrazione del fungo portatore del virus. Tuttavia questa ricerca non fu proseguita in quanto l'immissione dei relativi geni per mezzo di incroci, oltre ad essere difficoltosa per la scarsa compatibilità avrebbe fatto regredire troppo le caratteristiche agronomiche già acquisite. In conclusione ormai non esiste più alcuna varietà coltivata che non abbia i geni di resistenza alla rizomania, solo che essedo dominanti sono a rischio, nel senso che se il virus muta e aggira i meccanismi di resistenza tutto il lavoro fin qui fatto diventa inutile. Bisognerebbe cioè raggruppare assieme ai geni dominanti e altri geni recessivi di resistenza perché così la bietola diverrebbe più protetta dalle mutazioni del virus. Qualche sentore di mutazione qua e là si ha già".

Purtroppo, l'umanità sta ora sperimentando sulla propria pelle gli esiti di una mutazione nei virus. Chissà, forse con le moderne tecniche di Genome editing si potrebbe realizzare una super barbabietola con ogni tipo di resistenza possibile. Ma il tema delle modifiche genetiche è ancora troppo in alto mare per intravedere a breve una soluzione in tal senso.

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