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Glifosate: pasta sicura, sensazionalismo pure

Nuove analisi de Il Salvagente confermano che la pasta italiana è sicura dal punto di vista residuale. Peccato il messaggio fornito ai lettori sia il contrario di quello che avrebbe dovuto essere

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Pasta e glifosate: storia già vista

Fonte immagine: © Camugnero Silvana - Fotolia

Ci risiamo: Il Salvagente analizza venti marchi di pasta e trova residui di glifosate in sette di questi. Ovviamente, si lancia poi nella pessima abitudine di assegnare punteggi di qualità in base a criteri tutti suoi, dando l'idea di una situazione peggiorata rispetto al passato. Viene rilanciata pure l'ipotesi di cancerogenicità, evergreen per ogni occasione, e viene trasferita la sensazione di una crescente difficoltà nel reperire pasta pulita. Al contrario, sono proprio le analisi da loro stessi commissionate a confermare che la pasta, tutta, è pulita e sicura.

Ovviamente, nell'articolo si cita la posizione della Iarc, ma non quelle ad essa contrarie di tutte (si ripete: tutte) le autorità di regolamentazione mondiali, cui si sono aggiunte anche Fao e Oms. Altrettanto ovviamente si citano “studi” che avrebbero provato gravi danni sull’uomo, omettendo di dire che la stragrande maggioranza di tali studi non sono stati svolti sull’uomo in sé - non sono quindi di tipo epidemiologico - bensì sono stati sviluppati su cavie e su cellule in vitro a dosi migliaia o milioni di volte quelle reali. Un cliché già visto più volte, utile a fornire lo spaccato voluto agli occhi dei lettori.

Il succo dell’articolo è presto riassunto: nei sette marchi di pasta con presenza di glifosate, questo sarebbe stato sempre trovato non solo al di sotto, e di molto, al limite di Legge di 10 mg/kg fissato per il grano, bensì sarebbe stato inferiore perfino all’Loq, ovvero limite analitico di quantificabilità, pari a 0,1 mg/kg per i cereali, per lo meno stando al Reg. UE n° 293/2013. Tali valori infinitesimi aprono quindi anche la porta a una serie di dubbi perfino sull’affidabilità dei dati stessi, viste le difficoltà di analizzare glifosate quando presente in tracce così irrisorie.

Stare sotto l’LOQ significa infatti che la traccia è così bassa, ma così bassa, che nemmeno lo strumento più raffinato riesce a quantificarla. Se quindi il limite di quantificabilità per glifosate nei cereali è 0,1 mg/kg, significa che ha senso nullo affermare che in un campione ve n’è 0,06 e in un altro 0,04. Sono entrambi sotto l’Loq: punto.

E se le concentrazioni sono così basse da non poter essere nemmeno misurate con precisione da strumenti ultra moderni, figuriamoci che cosa potranno mai causare quelle dosi omeopatiche a carico della salute umana e dell’ormai abusato microbiota intestinale, divenuto il cavallo di battaglia di ogni ciarlatano che su questo erbicida abbia basato le proprie fortune, mediatiche, politiche ed economiche.

Tabella descrittiva delle analisi sulla pasta
In tabella sono riportati i dati analitici per glifosate, i valori di Loq, Lmr e Adi, con la percentuale di saturazione relativa a ognuno di questi parametri

Come si vede, nessun residuo è andato oltre l’Loq per glifosate, rappresentando meno dell’1% di saturazione dell’Lmr e dell’Adi, valore percentuale che per quest'ultimo parametro scende ulteriormente di un paio di zeri se si considera che di pasta se ne mangia mediamente 70 grammi al giorno, non un chilo.

Per la pasta alla quale è stato assegnato il valore di residuo più alto, la pasta Agnesi, servirebbero 320 chili al giorno per arrivare all’ADI in una persona di 60 chili. Esprimendoci in altri termini, sapendo che un italiano consuma mediamente 26 chilogrammi di pasta all’anno, ci vorrebbero oltre 12 anni di consumi di pasta per raggiungere la soglia giornaliera di sicurezza, l’ADI appunto. Praticamente, fra chi mangia pasta con residui e chi mangia pasta senza non vi è alcuna differenza dal punto di vista della sicurezza.

Peraltro, non si considera mai che la pasta non si mangia cruda, bensì cotta. La cottura altro non è che un’estrazione a caldo di una molecola polare, cioè glifosate, utilizzando grandi quantità di un solvente altrettanto polare, cioè l'acqua, per giunta a temperature di 70°C circa. Difficile che a fine cottura vi sia ancora del glifosate disponibile a finire nel piatto, cadendo per la quasi totalità nel lavandino insieme all’acqua stessa.

Per concludere, quindi, non v’è marchio di pasta che possa essere considerata peggiore o migliore dell’altra a causa di glifosate. Discorso a parte per le micotossine, le quali sì sono tossiche e cancerogene, mica glifosate. E queste vengono contenute proprio dall’applicazione degli opportuni agrofarmaci. Appare quindi insensato denunciare contemporaneamente la presenza di un contaminante naturale, come il deossinivalenolo prodotto da Fusarium, e i prodotti necessari a scongiurarne la presenza. Anche perché il Don è tossicologicamente molto peggio dei fungicidi utilizzati per impedirne la formazione.
 

La scienza fra larici e betulle

Una nota a parte la meritano alcune ricerche citate nell'articolo de Il Salvagente. Non si capisce infatti bene perché i Paesi scandinavi, Finlandia in primis, abbiano sviluppato una particolare ossessione verso i “pesticidi”, visto che ne adoperano quantità oltremodo irrisorie rispetto ad altre aree del mondo ove l’agricoltura è molto più complessa e sfidante. Ben diverso è infatti coltivare viti nel Trevigiano o peri nel Ferrarese, rispetto a doversi prendere cura dei boschi o di qualche campo di grano, orzo, avena e segale seminati al disgelo. Perché l’agricoltura finlandese questo è, con poco più di due milioni di ettari e meno di 60mila agricoltori, calati peraltro di oltre il 30% dal 2000 a oggi. E non vi è nulla da stupirsi di tale tracollo dell’agricoltura finnica, se ad Helsinki i decisori politici ascoltano ricercatori come quelli che operano nell’università di Turku, i quali pare non siano contenti se non sfornano pubblicazioni anti-chimica come quelle recentemente prodotte contro glifosate.

Ma cosa c’entra la Finlandia con gli articoli de Il Salvagente sulle pastasciutte? C’entra, perché dimostra quanto sia scarso lo spessore scientifico della letteratura citata. Nell’articolo basato su glifosate e micotossine si cita infatti proprio una ricerca finlandese in tema di microbiota intestinale. Di fatto, la ricerca è su base bibliografica ed è già stata trattata su AgroNotizie in tema di microbiota delle api, dimostrando anche in tal caso l’insussistenza delle accuse mosse a glifosate nel Vecchio Continente.
 
Leggi l’approfondimento:
Glifosate e microbiota delle api: falso problema in Europa

Nella pubblicazione citata, peraltro, non si dimostrano affatto degli effetti negativi, bensì si afferma solo che grazie a una nuova metodologia sarebbe stato possibile stimare come il 54% delle specie di batteri dell’intestino sia sensibile a glifosate. Tradotto: possiede il processo enzimatico sul quale glifosate esplica la propria azione inibitoria. Quindi, è stata solo riportata la percentuale di specie che “potrebbero” essere sensibili, ma solo in presenza significativa dell'erbicida. Il che non vuole affatto dire che quei batteri ne subiscano davvero gli effetti mangiandosi una pastasciutta contenente residui così bassi. In assenza di dosi sufficienti ad esplicare un effetto nocivo non v’è infatti batterio che possa soffrire del transito intestinale di tracce irrisorie di glifosate. La tossicologia, del resto, non è un'opinione: no dose, no effetto.
Le tracce reperite all'analisi da Il Salvagente sono infatti migliaia di volte inferiori alla dose utilizzata per esempio negli ormai noti studi su cavie dell’Istituto Ramazzini, ovvero 1,75 mg per chilo di peso corporeo. Somministrati al giorno e per lunghi periodi, peraltro, mica una volta e via. Per riprodurre le medesime dosi in un Essere umano del peso di 60 chilogrammi, questi dovrebbe ingoiare oltre 100 milligrammi al giorno di glifosate. Per giunta tutti i giorni. In sostanza, in un solo giorno gli si farebbe ingoiare quello che si stima transiti nel suo intestino in circa un secolo di vita.

Ma l’Università finlandese di Turku pare davvero molto calda sul tema glifosate, non a caso dalla medesima università deriva un’altra ricerca sull’erbicida, questa volta incentrata sugli effetti che avrebbe sulle colture se presente nella pollina. Una ricerca che, tanto per cambiare, ha dimostrato che se si usa una molecola a dosi molto più alte di quelle reali si può ottenere quello che si vuole.

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In sostanza – e come al solito – Il Salvagente ha trovato opportuno dare credito e risalto a ricerche dal valore dallo scarso al nullo dal punto di vista del realismo scientifico. Oppure che volevano dire tutt'altro di quanto riportato. A ulteriore conferma della palese filiera che si è ormai consolidata fra ricercatori che producono munizioni e media che poi le sparano.

A rimanere gravemente ferita da tale fucilazione corale, ovviamente, l'agricoltura che fornisce cibo sano e sicuro a tutti. Scienziati e giornalisti inclusi.

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