Melo resistente alla ticchiolatura: grande interesse ma poche superfici
È da quarant'anni che sono disponibili varietà di melo resistenti alla ticchiolatura, ma la loro diffusione è ancora limitata ad un 5% della superficie. La situazione potrebbe però presto cambiare perché il lavoro dei breeder sta rendendo disponibili nuove varietà che promettono di soddisfare le esigenze degli agricoltori e i gusti dei consumatori
La varietà resistente alla ticchiolatura Bernina® dell'Università di Bologna
Fonte immagine: Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agro-Alimentari dell'Università di Bologna
La mela, insieme alla banana, è il frutto più consumato al mondo e, nel contesto europeo, l'Italia è il secondo produttore dopo la Polonia. Soprattutto nelle regioni del Nord, ma non solo, si coltivano circa 55mila ettari con una produzione di mele che soddisfa il mercato nazionale, ma anche quello estero.
Tra le tante sfide che deve affrontare la melicoltura c'è anche quella della sostenibilità ambientale e dell'impatto della difesa fitosanitaria sugli ecosistemi e sulle popolazioni che vivono in territori densamente coltivati, come il Trentino Alto Adige.
La ticchiolatura è la malattia fungina chiave di questa coltura, in quanto può azzerare la produttività di un meleto, e contro la quale ogni anno vengono effettuati numerosi interventi con agrofarmaci, anche venticinque-trenta nel corso della stagione contro un solo patogeno. Un utilizzo di prodotti di sintesi che, oltre a rappresentare un onere per l'agricoltore, è mal tollerato dai cittadini, che più di una volta sono scesi in piazza per protestare.
In questo contesto, l'impiego di varietà geneticamente resistenti alla ticchiolatura rappresenta, almeno sulla carta, una interessante opportunità. Nelle zone più densamente popolate, nelle vicinanze di aree frequentate dalla popolazione o nelle coltivazioni biologiche, i meli resistenti consentono di ridurre drasticamente i trattamenti fitosanitari contro la ticchiolatura (appena tre-quattro l'anno). Eppure, nonostante esistano in commercio da quasi quarant'anni varietà resistenti, la loro diffusione è ancora estremamente limitata.
"In Italia le varietà resistenti rappresentano il 5% della superficie a melo, mentre in Paesi come la Svizzera o la Francia si arriva intorno al 15%", ci racconta Roberto Gregori, breeder dell'Università di Bologna che insieme al professor Stefano Tartarini porta avanti il programma di miglioramento genetico del melo dell'ateneo.
Varietà resistenti: perché si piantano poco
Dal punto di vista tecnico, le varietà resistenti alla ticchiolatura rappresentano una soluzione brillante. Possono abbattere drasticamente l'uso di fungicidi, aumentare la sostenibilità della coltura e facilitare il lavoro dell'agricoltore, specialmente in biologico. Eppure, la loro adozione su larga scala resta contenuta. Perché?
Innanzitutto, molte delle varietà introdotte negli Anni Ottanta e Novanta erano state selezionate privilegiando l'aspetto agronomico (in primis la resistenza alla malattia) a discapito delle caratteristiche qualitative. Si incrociava infatti una varietà commerciale con una selvatica (o semi commerciale) resistente. Il risultato erano mele resistenti, ma spesso poco appetibili dal punto di vista del consumatore: sapori scadenti, colorazione scarsa e non uniforme, polpa poco croccante e conservabilità non sempre all'altezza delle aspettative.
"All'inizio si è puntato tutto sulla resistenza, ma il mercato ha dimostrato che la qualità non è negoziabile", spiega Gregori. "Questo ha portato a sviluppare e valutare nuovi incroci e oggi ogni nuova varietà deve rispondere, oltre che a criteri agronomici, anche agli aspetti qualitativi e commerciali".
Oltre a questo, le varietà resistenti hanno subìto la concorrenza di quelle tradizionali, in un mercato molto affollato e competitivo, che ogni anno rilascia decine e decine di nuove varietà. Tuttavia in regioni come la Svizzera, dove il consumatore ricerca prodotti con un maggior grado di sostenibilità e gli agricoltori sono incentivati a usare varietà resistenti, l'espansione di queste cultivar è stata notevole e oggi un campo su tre è resistente (almeno nel regime biologico).

Mele della varietà Bernina®
(Fonte foto: Università di Bologna)
Ticchiolatura, il flagello del melicoltore
La ticchiolatura, causata dal fungo Venturia inaequalis, è una delle patologie più temute nella melicoltura. Colpisce foglie, rami e soprattutto frutti, che sviluppano macchie scure, spaccature e deformazioni, risultando invendibili. L'infezione si sviluppa facilmente in ambienti umidi e si diffonde con le piogge primaverili e autunnali. È una malattia endemica in Italia e per contenerla sono necessari decine di trattamenti ogni anno, con un impatto pesante sull'ambiente e sui costi di produzione.
La resistenza genetica si basa sulla presenza di uno o più geni specifici, in grado di attivare meccanismi di difesa che impediscono lo sviluppo della malattia. Il più noto e diffuso è il gene Rvi6 (ex gene Vf), derivato da Malus floribunda 821, una specie selvatica.
I meli resistenti semplicemente non si ammalano, anche se le condizioni ambientali sono favorevoli al patogeno. Il fungo, infatti, non riesce a colonizzare i tessuti della pianta ospite, poiché il gene Rvi6 consente alla pianta di riconoscere specifiche molecole prodotte dal patogeno e conseguentemente di bloccare l'infezione, conferendo così resistenza alla malattia.
Una lunga storia di ricerca a Bologna
Il programma di miglioramento genetico del melo dell'Università di Bologna ha radici profonde, (partì alla fine degli Anni Settanta) e aveva lo scopo di comprendere a fondo la genetica del melo, studiare i meccanismi ereditari alla base di alcuni tratti agronomici, incluse le resistenze e le qualità organolettiche, l'adattamento ambientale e la conservabilità dei frutti.
"All'inizio l'idea non era tanto quella di produrre nuove varietà resistenti per il mercato", racconta Roberto Gregori. "All'inizio ci interessava di più capire la trasmissione di alcuni caratteri in melo, esplorare la variabilità e sviluppare conoscenze utili per la ricerca piuttosto che ottenere nuove varietà".
Tramite un programma di incroci sono state prodotte oltre 60mila piante (semenzali), che sono state valutate e da cui sono stati selezionati circa duecento esemplari che erano promettenti sotto diversi punti di vista, da quello agronomico fino a quelli qualitativi dei frutti.
Queste piante sono state moltiplicate e innestate su portainnesto M9. Di queste, solo le selezioni più promettenti sono poi state distribuite a diversi partner, privati e pubblici, sia italiani che europei, che hanno coltivato le nuove varietà in diversi areali. Si è poi passati ad una terza ed ultima fase, dove solo le tre-cinque selezioni migliori sono state utilizzate per creare dei campi pre commerciali, in modo da poter valutare approfonditamente le performance agronomiche e le qualità organolettiche dei frutti e mostrarle agli operatori del settore.
"La selezione di nuove varietà è un processo lungo, che richiede costanza e risorse umane ed economiche", sottolinea Gregori. "Ogni 10mila semi frutto di incrocio, in media, si ottiene una nuova varietà. Oggi abbiamo licenziato tre nuove varietà e abbiamo un campo germoplasma con circa 1.700 varietà di melo. È un lavoro da artigiani della genetica".
La prima varietà Ogm dell'Università di Bologna: una vittoria amara
Accanto al programma di miglioramento genetico tramite incroci, l'ateneo ha sfruttato le nuove conoscenze nel campo delle biotecnologie per sviluppare nuovi strumenti di selezione e scoprire i geni responsabili di importanti caratteri come le resistenze a patogeni. In particolare, l'Università di Bologna, in collaborazione con il Politecnico di Zurigo, ha identificato e clonato il primo gene di resistenza a ticchiolatura mediante l'ottenimento della prima mela geneticamente modificata resistente all'inizio degli Anni Duemila.
"La pianta era perfettamente stabile e indistinguibile da una Gala tradizionale, ma resistente", ricorda Gregori. "Purtroppo, ogni prodotto derivato da approcci di ingegneria genetica è ancora considerato Ogm, e questo ne ha impedito la registrazione, utilizzazione e diffusione".
Infine, questo pionieristico risultato ha aperto la strada alla realizzazione della prima mela cisgenica.
La cisgenesi è una tecnica che prevede di trasferire geni fra piante diverse della stessa specie, dando origine ad un organismo che sarebbe ottenibile anche tramite incrocio tradizionale, senza l'introduzione di Dna esogeno alla specie che si vuole migliorare.

La varietà MD01UNIBO*
(Fonte foto: Università di Bologna)
Oggi la cisgenesi ricade tra le cosiddette Tecnologie di Evoluzione Assistita (Tea), come anche il genome editing. Si tratta di pratiche che offrono l'opportunità di inserire o modificare in modo preciso i geni di interesse, riducendo i tempi di sviluppo e senza introdurre Dna esogeno. Un'arma potente nelle mani dei breeder, ma ancora ostacolata da un'incertezza normativa a livello europeo. Ad oggi, infatti, il genome editing e la cisgenesi ricadono ancora sotto il Regolamento sugli Ogm e quindi, di fatto, è impedita la coltivazione in pieno campo.
"In laboratorio possiamo fare molto - conclude Roberto Gregori - ma senza un quadro legislativo nuovo, non possiamo trasferire le innovazioni sul campo. Le Tea sono strumenti di miglioramento genetico potenti, non Ogm. È urgente che l'Europa prenda una posizione di apertura se non vogliamo rimanere indietro rispetto al contesto internazionale".
Dora® e Bernina®, le nuove varietà in campo
Ad oggi, la superficie coltivata con varietà resistenti in Italia si aggira sui 2.500 ettari, pari al 5% del totale. Emilia Romagna, Piemonte e Alto Adige sono le regioni con la più alta diffusione, anche se non si supera il 7%. Più giù il Trentino (2%) e la Valtellina (1%) in cui la penetrazione è ancora più bassa.
Tra le varietà più diffuse si trovano Inored Story® (sviluppata dall'Inrae in Francia), Ipador Giga® (varietà belga), CIVM49 RedPop® e poi UEB 32642 Opal®, Coop 39 Crimson Crisp®, Regalyou* Candine®, Smeralda, e nuove arrivate come Bonita e Fujion®. Si tratta di cultivar spesso gestite in filiere chiuse, adatte al convenzionale o al bio, in funzione delle caratteristiche agronomiche.
Negli ultimi anni il programma bolognese ha portato a compimento la selezione di tre varietà resistenti oggi in fase di introduzione commerciale.
La prima varietà, ancora identificata con un codice (MD01UNIBO*), è in fase di valutazione avanzata. Si tratta di una varietà di Gala tardiva, resistente a ticchiolatura e afide grigio. "Abbiamo identificato tutti gli attori della filiera e sono pronti a collaborare tra di loro, stiamo valutando la risposta commerciale - spiega Gregori - il potenziale di questa varietà è sicuramente molto alto".
La seconda è Dora®, una mela completamente rugginosa dal profilo aromatico intenso, dal sapore particolarmente acido e zuccherino, apprezzata per la lunga conservabilità e poco suscettibile alla ticchiolatura sulle foglie, mentre i frutti non vengono attaccati grazie alla completa rugginosità della buccia che crea una barriera fisica alla crescita e alla diffusone del patogeno.
La terza è Bernina®, una mela bicolore, croccante e succosa, con una polpa consistente e sapori equilibrati. Anch'essa resistente alla ticchiolatura e anche all'afide grigio. Probabilmente produce dei composti che dissuadono l'afide dal nutrirsi sulla pianta e lo inducono a cercare più apprezzate fonti di sostentamento. La Valtellina ha già da diversi anni espresso interesse verso questa varietà, che sarà presentata ufficialmente durante le prossime Olimpiadi invernali di Milano Cortina 2026.

Mele della varietà Dora®
(Fonte foto: Università di Bologna)
La resistenza non è eterna
Un aspetto fondamentale che potrebbe limitare la longevità delle varietà resistenti è la possibilità di superamento della resistenza da parte del patogeno. In alcuni areali europei il fungo ha già sviluppato ceppi in grado di eludere il gene Rvi6. Per questo motivo, agli agricoltori viene consigliato di effettuare tre-quattro trattamenti in primavera, nel momento più critico, in modo da mantenere bassa la pressione del patogeno e limitare il rischio di selezione di popolazioni in grado di superare la resistenza. Il futuro del breeding punta poi sulla piramidizzazione, ovvero combinare più geni di resistenza all'interno della stessa pianta.
"È un po' come blindare una porta con più serrature", spiega Roberto Gregori. "Se uno dei geni viene superato, gli altri possono ancora proteggere la pianta". A ciò si aggiunge il lavoro sulla resistenza multipla, cioè l'introduzione di geni contro più patogeni contemporaneamente, come l'oidio o l'afide grigio.
Leggi anche Nuova ticchiolatura del melo, la parola alla ricercatrice